La vita è una sceneggiatura con finale ignoto, dove ci si muove passo dopo passo in attesa di un segno, una rivelazione, un percorso già tracciato.
Paolo Genovese in "Il primo giorno della mia vita", edito da Einaudi Stile Libero, ingigantisce le prospettive, crea una struttura ipotetica che costringe il lettore a riorientare l'approccio all'esistenza, a volte miope, a volte impaurito.
Un bambino, una poliziotta, una ex ginnasta e un "motivatore": personaggi che escono dalla carta, si muovono grazie ad una caratterizzazione marcata. Diventano i folletti delle nostre incertezze, dei nostri inciampi.
Hanno perso la motivazione, l'input necessario ad immaginare un'altra occasione. Si arenano nella spiaggia dell'amarezza, bevono alla fonte della delusione. Unica scelta: interrompere la traversata, scegliere la morte.
Chi è lo sconosciuto che prospetta una seconda opportunità? Ferma il loro volo verso un precipizio ignoto e li invita per una settimana a osservare dall'esterno passato, presente e futuro.
L'architettura del testo coniuga brillantemente parola e immagine, assume le sembianze di una pellicola ricca di effetti speciali.
Sembra di vivere dentro una bolla di sapone, fragile e illusoria metafora di luoghi e spazi ideali.
Lo scrittore smantella i confini di un destino già scritto, introietta il tempo in una dimensione surreale, trasforma il banale evolversi degli eventi in gioco seducente.
Ricorda che le affinità "intellettuali, emotive o spirituali" vanno cercate seguendo un incastro emotivo e non razionale.
Sono rappresentati magistralmente i sentimenti e nell'intersecarsi con la musica creano un romanzo alternativo, una seconda voce che si affaccia timida e poi esplode in un canto liberatorio.
Crollare, fermarsi in cerca d'aria è consentito, impossibile forse arrendersi.
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