Intervista a Fortunato Cerlino, autore di “Se vuoi vivere felice” Einaudi
Dal teatro al cinema oggi approda nel territorio della narrativa con “Se vuoi vivere felice” (Einaudi). Cosa si aspetta dal mondo editoriale?
In realtà si tratta di territori in me fortemente connessi. Veicoli per dialogare, comprendere e portare alla luce, istanze profonde che fin da bambino mi hanno spinto verso la ricerca dell'autenticità. Per questa esplorazione, si possono usare diversi strumenti. La penna, la macchina da presa, un palcoscenico. Lo scopo rimane lo stesso.
La scrittura è però per me lo strumento più intimo. Scrivo e leggo da quando ero un bambino di pochi anni. Vivevo in una famiglia molto numerosa, lo spazio vitale per ognuno di noi era ridotto. Non avevo una stanza mia. I libri erano la mia stanza. Quando avevo bisogno di ritirarmi , aprivo la porta di un libro, e lì dentro, anche se fuori c'era un baccano infernale, riuscivo a trovare la pace interiore. La copertina dei libri era davvero come una porta e in qualche modo lo è ancora. La serratura si trova però all'interno. Solo dopo aver letto e riletto un libro se ne trova la chiave e, una volta trovata, quella stanza va ad aggiungersi all'architettura della nostra personalità.
Scrivere è un passaggio ulteriore che ha a che fare con la gratitudine. Un modo per restituire il bene ricevuto dalle parole e dagli scrittori, raccontando a mia volta storie che possano essere donate. Perché un libro è sempre un dono.
Non solo un libro di formazione, nell'incastro tra presente e passato del protagonista si intuisce il desiderio di uscire dalle frontiere dell’Io. Quanto ha influito la ricerca di identità?
Talvolta penso che la ricerca dell'identità, sia sul piano personale che collettivo, abbia a che fare con l'intuizione shakespeariana in Amleto, quando il principe consiglia a Polonio di procedere come un Gambero. Ci illudiamo di andare verso qualcosa, in realtà potrebbe essere altrettanto vero che stiamo solo tornando sui nostri passi. L'essere evoluto in noi ha già percorso il sentiero e ci ha lasciato degli indizi. Raccogliere questi indizi lasciati da noi stessi è proprio quello che mi piace pensare come ricerca dell'identità. Alla fine l'idea di tempo che avevamo prima del metodo scientifico, era circolare. L'alfa e l'Omega, senza mai sovrapporsi, coincidevano. In questo senso l'io sta in rapporto al sé come il navigatore al paesaggio durante un viaggio.
Che ruolo ha la famiglia nel romanzo? Raccontarla per darle occasione di riscatto?
La famiglia è la nostra storia, le nostre radici e il filtro attraverso cui leggiamo il mondo soprattutto nella prima parte della nostra vita. Non parlerei di riscatto. Questo libro racconta di un nucleo familiare inserito in un contesto sociale e storico che è quello di una provincia povera e violenta. Mi sono sforzato molto per definire la cornice in cui avvengono certe cose, per rendere evidente la catena di azioni e reazioni che si innesca nell'organismo famiglia in relazione all'habitat in cui si nutre. La violenza e l'impossibilità di amare di cui racconto, è in larga parte frutto di quel contesto. Quando narri di in una famiglia in cui si fa fatica a mettere il piatto in tavola perché manca il lavoro, significa accendere un riflettore sulla genesi della violenza domestica e sociale. Lasciando da parte le eccezioni, la mancanza di una politica che ponga al centro la dignità delle persone fornendogli strumenti di crescita e sopravvivenza, piega sulle ginocchia e avvilisce il desiderio di sognare. Si vive in una continua emergenza che poco a poco diventa normalità. Questa aberrazione è il nido di tutte le violenze. Era vero negli anni ottanta ed è tragicamente vero anche nei nostri giorni. La fame non ti fa respirare, ragionare, guardarti allo specchio. L'attività intellettuale, in certe periferie, è vista come un lusso. Ho grande riconoscenza per chi compra il mio libro.
Il Sud è rappresentato dalle storie di uomini e donne comuni, cosa ci insegnano?
Secondo la concezione alchemica del magnetismo e delle vibrazioni, nel sud del nostro corpo ci sono i centri nevralgici dell'energia legata alle viscere, alla terra. Il luogo delle pulsioni, del possesso, del nutrimento fisico, dell'osmosi con il mondo di carne. Credo che qualcosa del genere si rifletta anche nella geografia dei popoli. Senza quelle pulsioni profonde saremmo di fronte solo a mezza verità su noi stessi. Il sud del mondo ci aiuta a capire cosa significa avere fame, in ogni senso. Fame di emozioni, fame d'amore e di sesso, fame di rivalsa. Il sud ci insegna a masticare il mondo, il nord a scegliere i cibi migliori. Una parte senza l'altra genererebbe un'esistenza sterile. Inoltre c'è sempre un sud del sud, come un nord del nord. In questo momento storico, per esempio, noi europei siamo il nord di un mondo che si sta riversando a casa nostra. Prima di chiudere le porte bisognerebbe chiedersi che cosa c'è da capire. Guidati dalla razionalità, dovremmo trasformare l'invasione in incontro. Ė un processo inarrestabile e, secondo me, anche una grande opportunità.
Sul piano personale, quando rifiuto il sud di me stesso, rischio sempre la nevrosi.
Ha scelto la periferia di Napoli, che definisce il Far West, senza eccedere nei luoghi comuni. Se dovesse definirla con tre aggettivi?
Onesta.
Illegittima.
Geniale.
“Eravamo in balia di onde troppo alte in un mare troppo scuro, tra i detriti di una nave colata a picco”. Una delle tante allegorie presenti nel testo. Che relazione tra letteratura e metafora?
La stessa che intercorre tra i concetti e le immagini. Un buon film, per esempio, quando è troppo concettuale, risulta noioso. Gran parte della narrazione deve essere affidata all'azione, alle immagini, all'esperienza, quindi. La metafora credo serva a rendere palese un concetto facendolo scivolare sul piano dell'esperienza. Un po' come nella vita. Possiamo comprendere delle cose del mondo e di noi stessi sul piano concettuale, ma solo l'esperienza renderà quella comprensione, sapienza.
Si ripete spesso la parola “vuoto”. Esistenziale o affettivo?
Il vuoto di cui parlo spesso nel libro è il luogo disatteso, la terra non arata, lasciata incolta e priva di acqua. Un vuoto generato dalla impossibilità, incapacità talvolta, di prendersene cura. Un vuoto sociale che si riversa sulla vita dei singoli, ma che spesso è provocato dall'incuria della politica o peggio, dagli interessi economici. La rabbia è un business, e qualcuno lo sa bene.
C'è però un altro vuoto di cui parlo tra le righe del romanzo. Un vuoto sacro. Quello, sarebbe il caso di augurarselo. Ho sempre sognato di avere in casa una stanza completamente vuota dove potermi ritrovare allentando le tensioni. Non ci sono mai riuscito. Prima o poi, in quella stanza entrava una sedia, quindi una scrivania, poi un libro... fino ad arrivare ad uno specchio e quindi la televisione. Qualche risultato più incoraggiante lo ottengo, raramente, con la meditazione. Anche lì però, i pensieri spingono contro la porta e inevitabilmente entrano nel mio spazio vuoto.
Il dialetto entra nella scrittura con una sua autonomia, è come se scandisse le pause.
Per tornare all'immagine di prima, il sud di me stesso parla solo in dialetto. Per poter dialogare con quella zona dell'essere ho dovuto usare la sua lingua. Inoltre il bambino che vado ad incontrare nel libro vive a Pianura negli anni ottanta. Non parlava italiano, come non parla italiano mio padre. Quando torno a casa dei miei, devo parlare in dialetto per essere compreso. In questo senso, più che scandire le pause, riallaccia dei nodi tra presente e passato, tra concetti e metafore, tra testa e corpo.
Alcune pagine fanno pensare al teatro di Eduardo de Filippo. Del testamento culturale del grande Maestro cosa le appartiene?
Eduardo come pochi altri, ha scritto di Napoli e dei napoletani. Comprendeva bene il nostro popolo, lo sentiva, lo respirava. Ha costruito una casa dove poter incontrare sia le luci che le ombre della cultura e della subcultura della civiltà napoletana. Non indulge mai. Non condanna mai. C'è un grande amore per i napoletani nelle sue pagine, anche quando è severo e cinico. Per questo motivo oltre alle storie che racconta viene fuori una filosofia, una possibile lettura del mondo attraverso l'identità culturale partenopea. Una identità che riesce ad essere universale proprio nel momento in cui si fa particolare. Napoli è, e probabilmente sarà sempre, una città patrimonio dell'umanità.
“Noi siamo diversi”: una frase che sa riempire di contenuti, racconti, volti. Ha ideato uno splendido affresco, da quale immagine è partito?
Non saprei dirlo. Se ci penso adesso, direi dal Vesuvio. Magma incandescente che pressa cercando la via verso il mare, e quindi il cielo. Perché in fin dei conti, il destino dei corpi è quello di salire verso il cielo, sublimando la materia, facendo evaporare le anime verso l'infinito. Qualcuno direbbe, verso la casa del Padre. In ultima analisi, il paradiso, lo immagino come un luogo vuoto, pieno di presenza.
Il suo libro intreccia compassione e libertà, quale delle due prevale?
Non è per non rispondere, ma l'una innesca sempre l'altra. Lascio a lei
Dal teatro al cinema oggi approda nel territorio della narrativa con “Se vuoi vivere felice” (Einaudi). Cosa si aspetta dal mondo editoriale?
In realtà si tratta di territori in me fortemente connessi. Veicoli per dialogare, comprendere e portare alla luce, istanze profonde che fin da bambino mi hanno spinto verso la ricerca dell'autenticità. Per questa esplorazione, si possono usare diversi strumenti. La penna, la macchina da presa, un palcoscenico. Lo scopo rimane lo stesso.
La scrittura è però per me lo strumento più intimo. Scrivo e leggo da quando ero un bambino di pochi anni. Vivevo in una famiglia molto numerosa, lo spazio vitale per ognuno di noi era ridotto. Non avevo una stanza mia. I libri erano la mia stanza. Quando avevo bisogno di ritirarmi , aprivo la porta di un libro, e lì dentro, anche se fuori c'era un baccano infernale, riuscivo a trovare la pace interiore. La copertina dei libri era davvero come una porta e in qualche modo lo è ancora. La serratura si trova però all'interno. Solo dopo aver letto e riletto un libro se ne trova la chiave e, una volta trovata, quella stanza va ad aggiungersi all'architettura della nostra personalità.
Scrivere è un passaggio ulteriore che ha a che fare con la gratitudine. Un modo per restituire il bene ricevuto dalle parole e dagli scrittori, raccontando a mia volta storie che possano essere donate. Perché un libro è sempre un dono.
Non solo un libro di formazione, nell'incastro tra presente e passato del protagonista si intuisce il desiderio di uscire dalle frontiere dell’Io. Quanto ha influito la ricerca di identità?
Talvolta penso che la ricerca dell'identità, sia sul piano personale che collettivo, abbia a che fare con l'intuizione shakespeariana in Amleto, quando il principe consiglia a Polonio di procedere come un Gambero. Ci illudiamo di andare verso qualcosa, in realtà potrebbe essere altrettanto vero che stiamo solo tornando sui nostri passi. L'essere evoluto in noi ha già percorso il sentiero e ci ha lasciato degli indizi. Raccogliere questi indizi lasciati da noi stessi è proprio quello che mi piace pensare come ricerca dell'identità. Alla fine l'idea di tempo che avevamo prima del metodo scientifico, era circolare. L'alfa e l'Omega, senza mai sovrapporsi, coincidevano. In questo senso l'io sta in rapporto al sé come il navigatore al paesaggio durante un viaggio.
Che ruolo ha la famiglia nel romanzo? Raccontarla per darle occasione di riscatto?
La famiglia è la nostra storia, le nostre radici e il filtro attraverso cui leggiamo il mondo soprattutto nella prima parte della nostra vita. Non parlerei di riscatto. Questo libro racconta di un nucleo familiare inserito in un contesto sociale e storico che è quello di una provincia povera e violenta. Mi sono sforzato molto per definire la cornice in cui avvengono certe cose, per rendere evidente la catena di azioni e reazioni che si innesca nell'organismo famiglia in relazione all'habitat in cui si nutre. La violenza e l'impossibilità di amare di cui racconto, è in larga parte frutto di quel contesto. Quando narri di in una famiglia in cui si fa fatica a mettere il piatto in tavola perché manca il lavoro, significa accendere un riflettore sulla genesi della violenza domestica e sociale. Lasciando da parte le eccezioni, la mancanza di una politica che ponga al centro la dignità delle persone fornendogli strumenti di crescita e sopravvivenza, piega sulle ginocchia e avvilisce il desiderio di sognare. Si vive in una continua emergenza che poco a poco diventa normalità. Questa aberrazione è il nido di tutte le violenze. Era vero negli anni ottanta ed è tragicamente vero anche nei nostri giorni. La fame non ti fa respirare, ragionare, guardarti allo specchio. L'attività intellettuale, in certe periferie, è vista come un lusso. Ho grande riconoscenza per chi compra il mio libro.
Il Sud è rappresentato dalle storie di uomini e donne comuni, cosa ci insegnano?
Secondo la concezione alchemica del magnetismo e delle vibrazioni, nel sud del nostro corpo ci sono i centri nevralgici dell'energia legata alle viscere, alla terra. Il luogo delle pulsioni, del possesso, del nutrimento fisico, dell'osmosi con il mondo di carne. Credo che qualcosa del genere si rifletta anche nella geografia dei popoli. Senza quelle pulsioni profonde saremmo di fronte solo a mezza verità su noi stessi. Il sud del mondo ci aiuta a capire cosa significa avere fame, in ogni senso. Fame di emozioni, fame d'amore e di sesso, fame di rivalsa. Il sud ci insegna a masticare il mondo, il nord a scegliere i cibi migliori. Una parte senza l'altra genererebbe un'esistenza sterile. Inoltre c'è sempre un sud del sud, come un nord del nord. In questo momento storico, per esempio, noi europei siamo il nord di un mondo che si sta riversando a casa nostra. Prima di chiudere le porte bisognerebbe chiedersi che cosa c'è da capire. Guidati dalla razionalità, dovremmo trasformare l'invasione in incontro. Ė un processo inarrestabile e, secondo me, anche una grande opportunità.
Sul piano personale, quando rifiuto il sud di me stesso, rischio sempre la nevrosi.
Ha scelto la periferia di Napoli, che definisce il Far West, senza eccedere nei luoghi comuni. Se dovesse definirla con tre aggettivi?
Onesta.
Illegittima.
Geniale.
“Eravamo in balia di onde troppo alte in un mare troppo scuro, tra i detriti di una nave colata a picco”. Una delle tante allegorie presenti nel testo. Che relazione tra letteratura e metafora?
La stessa che intercorre tra i concetti e le immagini. Un buon film, per esempio, quando è troppo concettuale, risulta noioso. Gran parte della narrazione deve essere affidata all'azione, alle immagini, all'esperienza, quindi. La metafora credo serva a rendere palese un concetto facendolo scivolare sul piano dell'esperienza. Un po' come nella vita. Possiamo comprendere delle cose del mondo e di noi stessi sul piano concettuale, ma solo l'esperienza renderà quella comprensione, sapienza.
Si ripete spesso la parola “vuoto”. Esistenziale o affettivo?
Il vuoto di cui parlo spesso nel libro è il luogo disatteso, la terra non arata, lasciata incolta e priva di acqua. Un vuoto generato dalla impossibilità, incapacità talvolta, di prendersene cura. Un vuoto sociale che si riversa sulla vita dei singoli, ma che spesso è provocato dall'incuria della politica o peggio, dagli interessi economici. La rabbia è un business, e qualcuno lo sa bene.
C'è però un altro vuoto di cui parlo tra le righe del romanzo. Un vuoto sacro. Quello, sarebbe il caso di augurarselo. Ho sempre sognato di avere in casa una stanza completamente vuota dove potermi ritrovare allentando le tensioni. Non ci sono mai riuscito. Prima o poi, in quella stanza entrava una sedia, quindi una scrivania, poi un libro... fino ad arrivare ad uno specchio e quindi la televisione. Qualche risultato più incoraggiante lo ottengo, raramente, con la meditazione. Anche lì però, i pensieri spingono contro la porta e inevitabilmente entrano nel mio spazio vuoto.
Il dialetto entra nella scrittura con una sua autonomia, è come se scandisse le pause.
Per tornare all'immagine di prima, il sud di me stesso parla solo in dialetto. Per poter dialogare con quella zona dell'essere ho dovuto usare la sua lingua. Inoltre il bambino che vado ad incontrare nel libro vive a Pianura negli anni ottanta. Non parlava italiano, come non parla italiano mio padre. Quando torno a casa dei miei, devo parlare in dialetto per essere compreso. In questo senso, più che scandire le pause, riallaccia dei nodi tra presente e passato, tra concetti e metafore, tra testa e corpo.
Alcune pagine fanno pensare al teatro di Eduardo de Filippo. Del testamento culturale del grande Maestro cosa le appartiene?
Eduardo come pochi altri, ha scritto di Napoli e dei napoletani. Comprendeva bene il nostro popolo, lo sentiva, lo respirava. Ha costruito una casa dove poter incontrare sia le luci che le ombre della cultura e della subcultura della civiltà napoletana. Non indulge mai. Non condanna mai. C'è un grande amore per i napoletani nelle sue pagine, anche quando è severo e cinico. Per questo motivo oltre alle storie che racconta viene fuori una filosofia, una possibile lettura del mondo attraverso l'identità culturale partenopea. Una identità che riesce ad essere universale proprio nel momento in cui si fa particolare. Napoli è, e probabilmente sarà sempre, una città patrimonio dell'umanità.
“Noi siamo diversi”: una frase che sa riempire di contenuti, racconti, volti. Ha ideato uno splendido affresco, da quale immagine è partito?
Non saprei dirlo. Se ci penso adesso, direi dal Vesuvio. Magma incandescente che pressa cercando la via verso il mare, e quindi il cielo. Perché in fin dei conti, il destino dei corpi è quello di salire verso il cielo, sublimando la materia, facendo evaporare le anime verso l'infinito. Qualcuno direbbe, verso la casa del Padre. In ultima analisi, il paradiso, lo immagino come un luogo vuoto, pieno di presenza.
Il suo libro intreccia compassione e libertà, quale delle due prevale?
Non è per non rispondere, ma l'una innesca sempre l'altra. Lascio a lei
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