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Anteprima di "La famiglia Aubrey" di Rebecca West Fazi Editore



Su gentile concessione di @Fazieditore sfogliamo in anticipo "La famiglia Aubrey" di Rebecca West 

In libreria il 5 luglio 2018










Capitolo I

Ci fu una pausa così lunga che mi chiesi se mia madre e mio padre avrebbero mai più ripreso a parlarsi. Non temevo davvero che avessero litigato, solo noi bambini litigavamo, ma piuttosto che fossero caduti preda di un incantesimo. Poi papà disse esitante: «Mi spiace molto cara».
Mamma rispose prima ancora che lui finisse la frase: «Non importa, purché questa volta vada tutto bene».
«Certo, sono sicuro che andrà bene», disse papà. La sua voce assunse un tono di scherno. «Credo di essere in grado di fare quel che mi viene chiesto. Dovrei essere in grado di dirigere un piccolo quotidiano locale».
«Oh, mio caro Piers, so che il lavoro non è degno di te», disse mamma con calore, «però è una tale benedizione, siamo così fortunati che il signor Morpurgo sia il proprietario del giornale ed è molto carino da parte sua aver chiesto il tuo aiuto…». Ebbe un’esitazione nel concludere la frase.
«Di nuovo», disse papà con noncuranza, semplicemente buttando lì le parole. «Sì, è strano che un uomo così ricco come il signor Morpurgo si dia pena di cose come la “Lovegrove Gazette”. Genera un profitto discreto per essere un piccolo giornale, o almeno così mi dicono, ma è comunque un’inezia per un uomo che possiede una tale fortuna. Suppongo però che, quando una persona accumula un grande patrimonio, pagliuzze e scorie vadano a finire nel setaccio insieme ai diamanti e alle pepite».
Poi ripiombò sotto l’effetto dell’incantesimo. I suoi occhi grigi, così luminosi sotto la linea dritta delle sopracciglia nere, perforavano il muro del salotto della casa colonica. Nonostante fossi molto piccola, sapevo che stava provando a immaginare cosa volesse dire vivere da milionario.
Mamma sollevò la teiera bruna e riempì di nuovo la propria tazza e quella di papà, poi sospirò e lui si voltò di nuovo a guardarla. «Odi essere lasciata in questo posto solitario vero?».
«No, no, io sto bene ovunque», disse lei, «e ho sempre voluto che i bambini facessero una vacanza nelle Pentland Hills come ho fatto io alla loro età. Non c’è niente di meglio della vita in una fattoria; o almeno così si dice sempre. Anche se non ne capisco il motivo. Ma affittare il nostro appartamento ammobiliato, no, questo non mi va. Non mi piace dover fare una cosa del genere».
«Lo so, lo so», disse papà mestamente, ma con una punta di impazienza.
Tutto questo accadeva più di cinquant’anni fa e i miei genitori non stavano facendo un dramma per una questione da nulla. A quei tempi poche persone rispettabili sarebbero state disposte a dare in affitto il proprio appartamento ammobiliato e nessuna persona rispettabile sarebbe mai stata disposta a prenderlo in affitto.
«So che queste persone hanno delle ragioni valide per volere un posto dove stare durante l’estate, visto che arrivano dall’Australia per andare a trovare la loro figlia nel sanatorio del dottor Philip», mormorò la mamma, «ma prendersi un tale rischio, lasciando degli estranei nell’appartamento con tutti quei bei mobili».
«Immagino siano mobili di valore», disse papà con tono pensieroso.
«Be’, certo, sono soltanto mobili stile Impero», disse la mamma, «ma, nel loro genere, si tratta del meglio. Zia Clara li comprò tutti in Francia e in Italia quando sposò quel violinista francese, e sono mobili solidi e confortevoli e, anche se so che non sono Chippendale, le sedie coi cigni e quelle con le teste di delfino sono davvero molto graziose, così come le fodere di seta con le api e le stelle. Dobbiamo essere riconoscenti del fatto di avere tutti quei mobili per quando ripartiremo da zero a Lovegrove».
«A Lovegrove», disse papà. «È così strano che io debba ritornare a Lovegrove. Non è strano Rose», disse porgendomi una zolletta di zucchero dalla ciotola, «che vi debba portare in un luogo dove stavo quando ero un bambino come voi?».
«C’era anche zio Richard?». Chiesi. Il fratello di papà, che era morto di febbri in India quando aveva ventun anni, era stato battezzato Richard Quinbury per distinguerlo da un altro Richard della famiglia e papà lo aveva amato così tanto che aveva battezzato il nostro fratellino con quello stesso nome. Lo consideravamo di gran lunga il più carino di noi quattro, quindi pensavamo allo zio morto come a una gioia che ci era stata rubata e che cercavamo di recuperare attraverso le storie di mio padre.
«C’era anche Richard Quin, sì», disse papà, «altrimenti non me ne ricorderei così bene. I luoghi che ho visitato senza di lui non sono mai così vividi nei miei ricordi».
«Cerca di trovarci una casa vicina a quella dove stavi», disse mamma, «sarebbe interessante per i bambini». «Mi chiedo come si chiamasse la casa. Ah sì, Caroline Lodge. Di certo sarà stata demolita molto tempo fa. Era una casa piuttosto piccola, ma davvero incantevole».
Mamma scoppiò a ridere all’improvviso. «Perché pensi che sia stata demolita? Sei così pessimista su tutto tranne che sul futuro delle miniere di rame».
«Il rame andrà bene nel lungo periodo», disse papà, gelido di rabbia improvvisa.
«Mio caro, non devi badare a tutto quello che dico!», ribatté lei protestando. Lo guardammo ansiose, e dopo un minuto lui sorrise. Ciononostante, gettò un’occhiata all’orologio e disse che era tempo di tornare alla stazione se voleva prendere il treno delle sei per Edimburgo; e non c’era più luce in lui, aveva quello sguardo misero e implorante che anche noi bambini qualche volta notavamo. La mamma gli disse con tenerezza: «Bene, non vogliamo che tu perda il treno e poi debba aspettare per ore in quella stazioncina piena di spifferi, anche se Dio solo sa quanto desideriamo che tu stia con noi fino all’ultimo minuto. Oh, è così gentile da parte tua, davvero, aiutarmi a portare i bambini quaggiù quando hai così tante cose a cui pensare».
«È il minimo che potessi fare», rispose gravemente.
Mentre il calesse veniva condotto davanti a casa, uscimmo e ci fermammo sui gradini di mattoni dell’ingresso. Il prato recintato davanti a noi si stendeva fino alle sponde del lago, un cerchio che scintillava cupo, perfettamente rotondo, chiuso tra le mura grigio-verde della valle. In un qualche punto della distesa d’acqua riuscivamo a scorgere due puntini bianchi che erano le mie sorelle Cordelia e Mary e un puntino blu che era mio fratello Richard Quin. Ormai era abbastanza grande da correre spedito qua e là e cadere, sempre senza farsi male, farfugliare qualche parola, ridere e punzecchiarci; giocavamo con lui tutto il giorno senza stancarci mai.
Mia madre buttò la testa all’indietro e li chiamò, la sua voce si levava alta come il grido di un uccello: «Bambini venite a salutare vostro padre!».




Le mie sorelle rimasero per un momento immobili dov’erano. In quel posto nuovo, così affascinante, avevano dimenticato ciò che incombeva su di noi. Poi Cordelia prese in braccio Richard Quin e corse più veloce che poteva senza rischiare di cadere; rimanemmo lì tutti e quattro, lo sguardo rivolto a papà, a guardarlo fisso in modo da poterlo ricordare perfettamente quando sarebbe stato lontano per quelle sei orribili settimane. Forse era un errore guardarlo fisso in quel modo, ma lui era davvero meraviglioso. Non era l’illusione tipica dei bambini, eravamo abbastanza obiettivi su certe cose. Eravamo tutti consapevoli del fatto che mamma non fosse attraente. Era troppo magra, il naso e la fronte rilucevano come ossa e i tratti somatici erano tutti scombussolati, perché i suoi nervi tormentati le segnavano il volto di righe come fossero rastrelli. Oltretutto eravamo così poveri che lei non aveva mai vestiti nuovi. Però sapevamo che papà era di gran lunga più affascinante di chiunque altro. Non era alto, ma era snello e aggraziato, dritto come gli schermidori nei quadri, ed era tenebroso come un eroe romantico; i baffi e i capelli erano nerissimi, e la pelle abbronzata, con un accenno di rosa in prossimità delle guance; aveva zigomi prominenti, che conferivano al volto il taglio appuntito del muso dei gatti, e nell’insieme aveva l’espressione meno stupida che si potesse immaginare. E poi sapeva tutto, aveva girato il mondo, fino in Cina, ed era capace di disegnare e di intagliare il legno per farne delle figurine e le case per le bambole. A volte giocava con noi e ci raccontava delle storie, ed era quasi impossibile sopportare la gioia di questi momenti perché il piacere che ci procuravano era tanto intenso e tanto inaspettato che eravamo sempre impreparati ad accoglierlo. Certo capitava anche che non facesse caso a noi per giorni e pure questo era quasi insopportabile. Ma persino il fatto di non dover soffrire per quel dolore per sei settimane era parte della tristezza che sentivamo ora.
«Bambini, bambini, presto saremo di nuovo insieme», disse papà, «e poi qui vi divertirete!». Indicò le colline dietro il lago. «Prima della fine delle vacanze si tingeranno tutte di porpora. Vi piacerà».
«Porpora?». Non riuscivamo a immaginare cosa volesse dire. Noi quattro eravamo nati tutti in Sudafrica, da dove eravamo partiti meno di un anno prima.
Quando ci aveva descritto la fioritura della brughiera, Cordelia, che era più grande di me e Mary di due anni e ci teneva sempre a sottolinearlo, aveva sospirato rumorosamente: «Oh cielo! Sarà una vacanza orribile per me! I bambini se ne andranno in giro tutto il tempo a guardare i fiori e si perderanno sulle colline e così io dovrò sempre correre appresso a loro per riportarli indietro. E il lago, poi, di sicuro ci finiranno dentro».
«Stupida, siamo capaci di nuotare bene quanto te, tutt’e due», mormorò Mary, e in effetti avevamo imparato a nuotare da piccole sulle spiagge del Sudafrica. Mamma la sentì e disse: «Mary non litigare con Cordelia ora», e Mary rispose, prendendola in giro, «Quando allora?», e Cordelia fece una smorfia di disperazione esagerata, come di uno che non riesce ad attirare l’attenzione del mondo sull’enorme fardello che gli tocca portare, e io mormorai a Mary: «Le daremo uno schiaffo la prossima volta». Poi però fummo distratte da quello che mamma stava dicendo.
«Ho capito bene, allora, domani vai a Londra e poi immagino che tu vada immediatamente dal signor Morpurgo».
«No», disse papà. «No, vado immediatamente in ufficio a Lovegrove».
«Non vai a trovare il signor Morpurgo? Non vai a ringraziarlo? Di sicuro lui si aspetterà che tu lo faccia come prima cosa».
«No», disse papà. «Dice che non vuole vedermi». Lo sguardo di mamma, che di colpo si era irrigidito, gli strappò una risatina beffarda. «È sempre stato un tipo molto riservato. In questo caso qualcosa lo ha contrariato, e dice che è felice che io debba dirigere il giornale per lui, ma pensa sia meglio che io tratti solamente con uno dei suoi direttori che si occupa di questioni secondarie, e che noi non ci incontriamo affatto. Lasciamo che faccia a modo suo, anche se non ne capisco il motivo».
Mamma forse lo capiva. Fece un respiro, scossa da un tremito, e disse: «Bene. Vai immediatamente in ufficio a Lovegrove, organizza il tuo lavoro e cerca una casa per noi, poi vai in Irlanda a trovare tuo zio; a quel punto io ti raggiungerò coi bambini e i mobili giusto in tempo perché loro possano andare a scuola con l’inizio del semestre e perché tu possa cominciare a lavorare il primo di ottobre. È così che dev’essere, vero?».
«Certo, certo cara», disse lui, «è stato stabilito così». Diede un bacio a tutti, cominciando da Cordelia per finire con Richard Quin, un ordine che seguiva sempre, poiché era un uomo giusto. Un tempo questo addolorava me e Mary, perché eravamo contrarie ai diritti dei primogeniti, finché non realizzammo che noi stesse mangiavamo sempre prima il cibo che ci piaceva meno, per lasciare ciò che ci piaceva di più alla fine. Poi abbassò la sua bocca baffuta sulla guancia di mamma, e mentre rialzava la testa chiese in tono leggero: «Per quanto puoi resistere qui?».
Il viso della mamma si contrasse. «Ma te l’ho detto.
Ho il denaro che gli australiani mi hanno dato per l’appartamento, ho già pagato al padrone di casa i nostri arretrati e sistemato i conti con i fornitori, e con quello che è rimasto possiamo rimanere qui fino alla terza settimana di settembre. Ma non di più. Non di più. Perché me lo chiedi? I tuoi progetti non sono ancora definitivi? Non andrà come abbiamo appena concordato?».
«Sì, sì», disse mio padre.
«Dimmelo se le cose andranno diversamente», lo pregò fiera. «Posso affrontare qualsiasi cosa. Ma devo sapere».
Li osservavamo con una curiosità che andava ben oltre questo momento. Perché stavamo lasciando Edimburgo così presto? Quando eravamo in Sudafrica, la mamma ci aveva detto che, dal momento che papà sarebbe stato il vicedirettore del «Caledonian», saremmo vissuti a Edimburgo fino a che non saremmo state abbastanza grandi da andare a Londra a studiare in una prestigiosa scuola di musica, come aveva fatto lei. E anche in Sudafrica, perché lasciammo Cape Town per Durban all’improvviso? E perché la mamma era sempre angosciata quando arrivavano quelle richieste di spostarci, mentre papà restava calmo, ma parlava in tono assente, come se le cose stessero accadendo a qualcun altro, spesso ridendo tra sé e sé di una risata muta e sprezzante? Questo era quanto stava facendo anche ora mentre si dirigeva verso il calesse. «Non c’è niente da sapere, cara Clare», disse, e montò sul sedile accanto al cocchiere.
«Addio», gli gridò la mamma. «E scrivi! Scrivi! Anche solo una cartolina, se sei troppo occupato per scrivere una lettera. Ma scrivi!».
Guardammo il calesse partire spingendosi lungo quel tratto di strada che si snodava fino in fondo alla valle, per poi oltrepassare il varco che la delimitava e infine scomparire. Non ci impiegò molto. Il ragazzo che lo conduceva stava spingendo al massimo il cavallo, cercando di mettersi in mostra davanti a papà come facevano sempre tutti. Poi Richard Quin tirò la gonna della mamma e nel suo balbettio le disse che non doveva piangere e che lui voleva bere. Tornammo tutti in salotto e rimanemmo in adorazione mentre lui le sedeva in grembo e beveva il latte a grandi sorsi, tutto scosso dai tremiti per lo sforzo e il piacere, come un cucciolo che beve da un piattino.
«Chi è il signor Morpurgo?», chiese Mary. «È un nome buffo. Fa pensare a un prestigiatore, “Il Grande Morpurgo”». Capiva bene che la mamma era turbata per qualcosa che quell’uomo aveva fatto, e non stava semplicemente facendo domande indiscrete. Eravamo ancora piccole, ma già furbe come volpi. Dovevamo esserlo. Dovevamo essere in grado di fiutare il vento e capire da quale parte sarebbe giunta la prossima sventura e prendere le nostre precauzioni, che spesso non erano esattamente del genere che i nostri genitori avrebbero approvato. Quando cominciarono i problemi al «Caledonian», qualsiasi cosa fossero, Mary e io ritenemmo prudente dire ai bambini dell’appartamento accanto che a papà era stato offerto un posto migliore da qualche altra parte. In questo modo pensavamo che nel momento in cui la mamma sarebbe stata infelice almeno non sarebbe stata trattata dai vicini con meno rispetto, anzi, piuttosto con rispetto maggiore; in ogni caso, come ci facevamo notare reciprocamente, questo si rivelò vero, perché papà stava andando alla «Lovegrove Gazette». Eravamo riuscite a trovare una linea di comportamento sensata e non avevamo intenzione di abbandonarla per colpa dei pasticci degli adulti.
«Il signor Morpurgo», disse la mamma, «è una persona alla quale dovrebbero andare le nostre benedizioni tutta la vita. È un uomo molto ricco, un banchiere credo, e da quando ha incontrato vostro padre, su una nave diretta non so dove, ha sempre fatto tutto quello che ha potuto per lui. Gli ha dato quel posto a Durban dopo che i proprietari del giornale di Cape Town si comportarono in modo così strano. Non si mostrarono per nulla comprensivi. E ora che il “Caledonian” si è rivelato una tale delusione per vostro padre, il signor Morpurgo lo ha nominato direttore di questo suo giornale londinese. Non so cosa sarebbe stato di tutti noi se lui non si fosse fatto avanti. Anche se non dovrei dirlo. Non dovete mai pensare che vostro padre non sia in grado di trovare un modo per provvedere a noi. Mai», disse, inclinando la tazza in modo che Richard Quin potesse bere fino all’ultima goccia, «mai ci abbandonerà».
«Che aspetto ha questo signor Morpurgo?», chiesi io.
«Non lo so», disse mamma. «Non penso di averlo mai incontrato. Ma tuo padre lo conosce da tanto tempo. Quell’uomo ammira molto vostro padre. Lo ammirano tutti, tranne le persone che sono invidiose di lui».
Cordelia chiese: «Perché dovrebbero essere tutti invidiosi di lui? Siamo così poveri».
«Oh, sono invidiosi della sua intelligenza, del suo aspetto, di tutto», sospirò mamma, «e poi ha sempre ragione quando gli altri hanno torto. Una situazione», disse severa, fissando a turno i suoi vividi occhi neri su ciascuno di noi, «nella quale è improbabile che voi possiate mai trovarvi». Poi tornò alla sua consueta dolcezza, e si volse a Richard Quin, che teneva la tazza quasi completamente rovesciata nel tentativo di raggiungere anche le ultime gocce di latte. «No, tesoro mio. Quando per mangiare arrivi a fare un gran rumore, allora devi fermarti, perché vuol dire che lo stai facendo nel modo sbagliato; se non ti fermi per poi riprendere senza fare rumore, finisci per assomigliare a un maialino e ti tocca andare a vivere nel porcile, cosa che, per quanto a te possa piacere, sarebbe motivo di turbamento per le tue povere sorelle. Loro vorrebbero stare insieme a te, ma non ci sarebbe spazio a sufficienza e tu devi tenerle in considerazione, visto che sono così buone con te. Oh mio piccolo tesoro, mi chiedo quale sarà il tuo strumento. Non saperlo è irritante».
Perché ovviamente tutte noi suonavamo uno strumento. Se i componenti della famiglia irlandese di papà erano invariabilmente soldati o mogli di soldati, allo stesso modo, nella famiglia di mamma, che veniva dalle Highlands occidentali, erano tutti musicisti, e lo erano sempre stati da almeno cinque generazioni. Non avevano dato nomi di spicco alla musica, forse perché erano sempre morti piuttosto giovani; però il nonno di mamma era andato in Austria e aveva suonato nell’orchestra dell’opera viennese, e aveva parlato con Beethoven e con Schubert; suo padre era stato Kappellmeister in una piccola corte ducale tedesca; il fratello morto era stato un compositore e direttore d’orchestra assai noto e lei a sua volta era stata una pianista famosa. Era già piuttosto conosciuta a vent’anni, quando una notte, proprio mentre stava salendo sul palco per un concerto a Ginevra, le fu consegnato un telegramma che le comunicava che il fratello prediletto era morto per un colpo di sole in India. Lei eseguì fino in fondo il programma e poi tornò in albergo, dove cadde in preda a una sorta di febbre che durò settimane e la lasciò in uno stato di malinconia tale che per riprendersi dovette imbarcarsi in un viaggio intorno al mondo, come dama di compagnia di una signora più anziana che aveva molto ammirato il suo talento musicale. A Ceylon incontrò papà, che proprio in quel momento stava lasciando un buon impiego in una piantagione di tè. Si sposarono e andarono a vivere in Sudafrica, dove alcuni parenti di lui gli procurarono un altro buon impiego. Tuttavia, non ebbe fortuna nemmeno lì, anche se la mamma non ci spiegò mai il perché. A ogni modo, non era importante, perché da tempo mio padre aveva cominciato a scrivere e aveva scoperto di avere un certo talento, quindi ottenne molto facilmente un posto come editorialista in un giornale di Cape Town. La mamma intanto aveva avuto tutti noi, e molte cose di cui preoccuparsi; ormai aveva superato i quarant’anni, le sue dita si stavano irrigidendo e aveva sempre i nervi scossi, perciò non avrebbe mai più ripreso a suonare. In ogni caso ci stava insegnando a suonare e, nonostante avesse rinunciato a Cordelia all’età di sette anni, un caso disperato considerata la sua mancanza di talento, pensava che io e Mary ne avessimo a sufficienza. E in qualche modo sapevamo che anche Richard Quin ne aveva. Se la cavava abbastanza bene con il triangolo, con il quale tutte noi avevamo cominciato.
«Non penso che sarà il piano», disse la mamma, scrutandolo da vicino, come se potesse leggere sulla grana della sua pelle il nome dello strumento che avrebbe suonato. Cosa che peraltro aveva un qualche fondamento. Già allora nessuno poteva immaginare Richard Quin seduto davanti a un pianoforte, che è uno strumento risoluto, monumentale, sempre più imponente della persona che lo suona, e che ammette un contatto solo attraverso la tastiera, mentre si poteva facilmente immaginarlo imbracciare un violino o un clarinetto. «E voi, Mary e Rose», continuò, «l’Erard lì nell’angolo è vecchio ma è accordato. C’è un tale che ogni sei mesi viene da Pennycuick per accordarlo. La sorte è dalla nostra parte. I Keith dicono che potete suonare ogni volta che volete tranne la domenica. Non ci sono scuse quindi, dovete esercitarvi regolarmente, come fate a casa. E mentre staremo qui vi farò lezione cinque volte la settimana invece di tre. Ho più tempo a disposizione».
«E io?», disse Cordelia.
Mary e io la guardammo con tenerezza, anche se spesso la odiavamo, e ci fu una pausa prima che mamma rispondesse: «Oh, non ti preoccupare, avrai anche tu le tue lezioni, come le altre».
Cordelia non si rendeva conto di non avere talento musicale. Quando mamma aveva smesso di darle lezioni di pianoforte, una ragazzina nella casa accanto stava prendendo lezioni di violino e Cordelia aveva insistito per prenderle anche lei e da allora aveva dato prova di una diligenza estrema per quanto mal riposta. Aveva davvero orecchio, anzi, aveva l’orecchio assoluto, che né mamma, né Mary, né io avevamo, il che era uno spreco terribile, e aveva anche dita molto elastiche, che riusciva a piegare all’indietro fino al polso, ed era in grado di leggere a prima vista qualsiasi cosa. Il viso di mamma, però, si contraeva, prima di rabbia e poi, appena in tempo, di compassione, ogni volta che sentiva Cordelia appoggiare l’archetto sulle corde. Il timbro era terribilmente instabile e il fraseggio faceva sempre pensare a un adulto stupido che spiegava qualcosa a un bambino. Per di più, non sapeva distinguere la buona musica da quella cattiva, come invece eravamo in grado di fare noi, da sempre.
Non era colpa di Cordelia se non era musicale. Mamma ce lo aveva spiegato spesso. I bambini prendono dalla famiglia del padre o da quella della madre e Cordelia aveva ereditato i tratti paterni. Questo le dava certi vantaggi, certo. Mary aveva i capelli neri e io li avevo castani, come tante altre bambine. Sebbene papà fosse così scuro, qualcuno nella sua famiglia aveva i capelli rossi, e la testa di Cordelia era piena di ricci corti di un rosso dorato, che brillavano alla luce e facevano voltare le persone per strada. Ma c’era qualcosa di più che non la semplice ereditarietà, qualcosa di più difficile da sopportare. Era su insistenza di papà che mamma teneva i capelli di Cordelia corti in un periodo in cui la moda del corto era passata da tempo e non sarebbe ritornata per anni. Nella casa in Irlanda c’era un ritratto di sua zia Lucy, che era andata a Parigi subito dopo le guerre napoleoniche e si era fatta ritrarre da Baron Gérard in chitone e pelle di leopardo, con i capelli acconciati secondo la moda detta “alla Baccante”, e, dal momento che Cordelia le assomigliava molto, papà ottenne da mamma che i suoi ricci fossero tagliati in uno stile il più simile possibile, tenendo conto delle capacità degli sbigottiti parrucchieri in Sudafrica e a Edimburgo.
Io e Mary non eravamo contente di questo accordo. Ci faceva sentire che non solo Cordelia era più vicina a papà di quanto non lo fossimo noi, e questo semplicemente per l’ingiustizia della legge naturale, ma anche che lei era un oggetto sul quale lui aveva lavorato per portarlo all’altezza del suo gusto. Con noi non l’aveva fatto. Né l’aveva fatto qualcun altro. Con tutti quegli esercizi al pianoforte, Mary e io non avevamo tempo, e mamma nemmeno, per sottoporci a un qualsiasi processo che ci trasformasse in oggetti finiti; eravamo materia grezza. Era davvero ingiusto che dovessimo fare tante cose oltre a suonare il pianoforte, che mamma dovesse andare a fare la spesa e prendere parte ai lavori domestici e gestire i problemi di papà, per cui lei non era mai ordinata e ben vestita come le altre mamme, e noi a scuola scioccavamo sempre le nostre insegnanti con il nostro aspetto trascurato e sbrigativo. Suonare il piano, però, pareggiava i conti. Perché se c’erano capelli rossi nella famiglia di papà, non c’era però una briciola di talento per la musica, e noi preferivamo essere musicali come mamma che avere ricci di un rosso dorato e renderci completamente ridicole suonando il violino come faceva Cordelia. Ci dispiaceva per lei, soprattutto ora che papà, al quale lei doveva quel che di interessante possedeva, sarebbe stato via per sei settimane. Ma comunque era una stupida a pensare di saper suonare il violino, era come se io e Mary pensassimo di avere ricci di un rosso dorato.
L’aria della stanza era attraversata da correnti di preferenze e avversioni, perdono e risentimento, quando la moglie del fattore venne a chiedere se avevamo voglia di vedere la cavalla e il puledrino che suo marito aveva appena portato a casa da un’asta che si era tenuta in una fattoria sulla collina, e ci trasferimmo nel mondo degli animali. Anche lì però c’erano correnti che andavano e venivano, niente era stabile. Per prima cosa ci presentarono ai cani da pastore, che furono esortati ad annusarci e leccarci, in modo che in seguito potessero sempre riconoscerci come parte della famiglia, senza abbaiare o morderci. La cosa non ci piacque poiché deploravamo l’idea che degli animali fossero così bizzosi da rendere necessari dei cerimoniali affinché si comportassero come si deve nei confronti di persone inoffensive, come la mamma e noi. «Ma sono cani da guardia», ci ricordò mamma, «proteggono la fattoria dai ladri», ma noi la canzonammo, «Quali ladri?», abbracciando con sguardo trionfante il verde, nitido anfiteatro di colline, come se l’innocenza dello scenario fosse la dimostrazione dell’innocenza del dramma che vi si compiva. È strano come in quei giorni ci fosse nell’aria la convinzione che i crimini di guerra e ogni altra crudeltà stessero per scomparire dalla faccia della terra, tanto che perfino le bambine sapevano con certezza che si trattava di una promessa che sarebbe stata mantenuta.
Poi la moglie del fattore ci indicò alcuni campi sul fianco della collina, punteggiati dal marrone del bestiame, e ci disse di non avvicinarci perché c’era un toro insieme alle mucche. Non avevamo nulla da obiettare su questo punto, probabilmente sentivamo che i tori non erano guidati da quel principio misterioso che induceva noi a una condotta priva di rischi e sentivamo la bocca seccarsi al solo pensiero di cosa avrebbe voluto dire rimanere intrappolati in uno di quei campi, soprattutto se Richard Quin fosse stato con noi. Nelle stalle invece c’erano i piccoli, i vitellini che non avevano ancora compiuto un anno, più educati e amichevoli di quanto non fossimo noi stessi; c’era anche un vitellino di appena due giorni, disteso a terra come una matassa di lana fulva, così spaventato dalla nostra presenza come noi lo saremmo stati dei cani e del toro se non avessimo anestetizzato la nostra paura per timore di dare credito alla menzogna secondo cui le femmine sono più paurose dei maschi. Anche il femminismo era nell’aria a quei tempi, perfino nell’aria delle nursery. I gatti della fattoria invece ci soffiavano e, coraggiose o no, fummo costrette a ritrarre le mani perché ci guardavano di traverso, con uno sguardo insolente da ladri, degno di Charles Peace, più che di un gatto. «Ricordatevi», esclamò la mamma, «che questi poveretti devono dare la caccia ai topi e non possono farlo se si concedono di essere gentili. Sarebbe un lusso che non possono permettersi». Ci chiedevamo se questo fosse un mondo gentile o meno, se la fattoria sarebbe stata un luogo sicuro per Richard Quin.
Ma in un box aperto scovammo la nuova cavalla e il suo puledro e così fummo certe che una speranza c’era. Il lungo ciuffo che le scendeva dritto tra le orecchie le dava l’aria di una donna dimessa con indosso un brutto cappello e aveva uno sguardo ansioso, come se fosse un essere umano e fosse capace di fare delle considerazioni.

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