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"Con Maria Attanasio










Dai colori accesi delle ceramiche di Caltagirone, presenti già nel neolitico, Maria Attanasio, poetessa e scrittrice siciliana, ha attinto per ricomporre il passato della sua isola. Dopo un attento e scrupoloso studio delle fonti ha scelto di farsi voce di personaggi dimenticati dalla Storia. “La ragazza di Marsiglia”, (Sellerio editore), finalista al Premio Rapallo, è un cesello letterario realizzato in sette anni. 



Leggendo il suo ultimo romanzo ho pensato a “Concetta e le sue donne”. (pubblicato da Sellerio editore 1999, ma sempre attuale)  Un omaggio ad una “capopopolo e protofemminista”. Concetta La Ferla ha fermezza nel contestare l'appiattimento politico del Partito Comunista. Quanto si riconosce nel personaggio?

Concetta non è un personaggio, ma entra in prima persona in questo libro. Raccontandosi, raccontandoci; la narrazione di  una  profonda condivisione, d’azione e ideale, che tra la fine degli anni sessanta e l’inizio del settanta,  ci ha visto insieme –e insieme a noi tante altre donne- per le strade e i carruggi di Caltagirone. 
Una militanza fortemente  di classe e di genere -radicata nel proletariato e sottoproletariato urbano- che adesso sembra archeologia politica: la lotta -quartiere per quartiere, casa per casa- per ottenere l’acqua, la luce, i diritti negati a una comunità. E quella -ancora più difficile, quasi epica- per non restare, in quanto donne, figuranti di comodo in partito comunista fortemente maschilista.  
Che già allora tendeva ad altre alleanze, dimenticando le ragioni politiche e sociali del suo esistere. Oggi del tutto cancellate, insieme alla sua storia. 

Mentre in “Concetta e le sue donne” modula il linguaggio popolare creando un affresco degli anni 60 colorato dalle tinte forti di un dialetto incisivo, in “La ragazza di Marsiglia” torna alla sua lingua originaria, poetica. Come si concilia poesia e prosa?

 Abituata a un rapporto di libertà incondizionata –e, insieme, di assoluta necessità espressiva-  con la parola poetica, piegarla al racconto è’ stato  per me difficilissimo.  Tutto, scrivendo in prosa, mi sembrava condizionato, innecessario, fino a quando le storie di vite cancellate che urgevano dentro di me, che volevano a tutti i costi essere raccontate, hanno forzato il mio linguaggio; con un po’ di umiltà, la parola della poesia si è fatta tempo, narrazione, cedendo un po’ della sua libertà alla congruità compositiva, alle ragioni del personaggio.
Ma la pratica della poesia –che peraltro continuo a scrivere- è un vizio che non si perde mai: a volte passo settimane a cercare la parola giusta, a decidere se un aggettivo devo metterlo prima o dopo un sostantivo, a spostare un periodo, a collocare una citazione. 
Del tutto inattuale, lo so, ma senza alternative, la mia scrittura-lumaca!  


Per raccontare il Risorgimento, ha scelto Rosalìe Montmasson, donna di carattere, rivoluzionaria intransigente. Cosa l'ha incuriosita nel tracciarne l'identità?

E stato, al contrario, l’incontro con Rosalie -quando, nell’autunno del 2010, in internet, ne ebbi casuale notizia- a motivare questa mia scrittura sul Risorgimento, a cui la sua vita pubblica e privata strettamente s’intrecciò. 
Pur avendo per anni insegnato storia, sconoscevo del tutto la sua esistenza: un silenzio inspiegabile sulla presenza di una donna tra i Mille partiti da Quarto. Non mi capacitavo: dovevo ritrovarla ad ogni costo, sapere il perché di quella cancellazione.
 Una ricerca ostinata e piena di ostacoli, che alla fine però mi ha consentito di restituire  voce e identità a questa donna straordinaria. Grande cospiratrice e combattente restò sempre fedele a Mazzini e alla repubblica, a differenza del suo amatissimo Fransuà -il marito, Francesco Crispi- che, diventato monarchico e poi potente capo del governo, insieme agli ideali mazziniani rimosse dalla sua vita e dalla memoria collettiva anche Rosalìe, la ragazza che al tempo dell’esilio aveva conosciuto a Marsiglia. E legittima moglie per più di vent’anni.

Riesce a mostrare lo sbalordimento dei siciliani allo sbarco dei Mille. Fu una rivoluzione subita?

Lo sbalordimento fu solo, a Marsala, al primo impatto con l’improvviso e inatteso arrivo di due navi piene di armati. 
Cercando l’identità storica e umana di Rosalie, ho trovato invece una coralità sommersa di resistenti e cancellati, che hanno costituito il fondamento invisibile, l’ossatura portante della spedizione senza cui il regno delle Due Sicilie non sarebbe mai diventato parte dell’Italia unita. Attorno ai Mille, e alle idee prevalentemente mazziniane del partito d’azione, si aggregarono cittadini, campagnoli, squadre di volontari: i mille diventarono presto i circa cinquantamila  uomini dell’esercito meridionale, con cui Garibaldi poté risalire vittorioso fino a Teano. A mobilitarli la speranza di un radicale cambiamento politico e soprattutto sociale.
 Una rivoluzione che la Sicilia  perciò  non subì, ma in cui fu protagonista, smentendo totalmente il gattopardiano tutto cambia perché nulla cambi: in Sicilia, nel Sud, ci fu un movimento di popolo, che voleva cambiare tutto per cambiare tutto.
Fu sconfitto. Ma ci fu. Passato però silenzio nella narrazione storica ufficiale del Risorgimento 

Speranze di riscatto sociale, che avranno appena la durata di qualche mese”. Nel procedere della narrazione assistiamo alla metamorfosi di Francesco Crispi. La repressione delle rivolte è una pagina insanguinata. Quali le responsabilità nel fallimento della causa rivoluzionaria? 

Certamente per il Sud, il  Risorgimento fu una rivoluzione mancata, per usare questa celebre definizione di Gramsci.
Due concetti di libertà si scontrarono, in Sicilia, nel sessanta, tra le fila dei garibaldini. Da un lato quello di una rivoluzione politica e sociale, attorno alle posizioni repubblicane di molti esponenti del partito d’azione, in prima fila Rosolino Pilo, che –diceva- sul tricolore non voleva nessun simbolo; dall’altro quello dell’unità nazionale, che il repubblicano Garibaldi -facendo proprio il binomio Italia e Vittorio Emanuele- riteneva assolutamente prioritaria su ogni altra istanza. Da qui le tremende repressioni –sui Nebrodi prima, a Bronte e in altri paesi dopo- ad opera delle stesse truppe garibaldine. 
Ma, dopo l’Unità, a determinante la fine di ogni praticabile progetto alternativo alla politica sabauda, antimeridionalista e accentratrice, fu soprattutto l’ambizioso protagonismo politico di Crispi, la cui conversione monarchica del 1864 produsse la scissione della sinistra, gran parte della quale lo seguì, essendone egli  autorevole e riconosciuto capo.

Nella situazione politica attuale vede la necessità di nuovi eroi?

Una risposta brevissima, citando Brech, “Felice quel popolo che non ha bisogno di eroi”. 
Non credo della singolarità di una salvifica figura politica, nell’azione di un egli, forte e carismatico, ma nella progettualità utopica e plurale del noi, come, quella che -al di là della mistificante retorica postunitaria –- fu alla base del Risorgimento.

Rosalìe abbandonata dal marito Francesco non reagisce. Rispetto delle scelte altrui o stanchezza per un amore ormai conflittuale?

Nessuna di queste due motivazioni. 
Fin quando Rosalia Montmasson ritenne che, al di là dei tradimenti del marito, un vincolo indissolubile di cuore e di politica continuasse a legarli, lottò come una tigre per tenerlo a sé;  ma davanti alla sua bigamia ebbe piena coscienza della fine del loro rapporto. Perciò  durante quel procedimento istruttorio nei confronti di Crispi, non assunse avvocati, non si difese. Un atteggiamento,  che,  in totale contrasto con il suo temperamento focoso e intransigente, apparve incomprensibile all’opinione pubblica del tempo.
 In realtà di grande coerenza interiore: per Rosalie, l’amore non era dittatura di carte e tribunale, ma passione e convergenza sentimentale e ideale. Alla fine degli anni quaranta dell’Ottocento, era andata infatti a convivere con Crispi senza essere sposata, dopo più di vent’anni di matrimonio, pur continuando ad amarlo, non volle tentare di restargli accanto per decreto di legge. Con grande dignità e rispetto di sé, come donna.
 Una libertaria sorella dell’Ottocento a noi contemporanea. 


Quanto è stato importante l'incontro con Elvira Sellerio? Ci regala un ricordo di quegli anni?

Fino a metà degli anni ottanta, non avevo mai pensato a narrazioni: la mia esclusiva scrittura era la poesia. E’ stata lei, Elvira, a spingermi -nonostante me- a scrivere il mio primo romanzo, Correva l’anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile. In quegli anni  abitavo a Palermo e di tanto in tanto andavo a trovarla: svagati conversari di libri, di vita, e tante sigarette. Un giorno le raccontai un singolare episodio, avvenuto a Caltagirone alla fine del Seicento, riportato da un cronista locale: la storia di Francisca, una popolana, vedova e senza risorse, che  -contravvenendo  alle leggi e al costume- si traveste da uomo e va a lavorare in campagna insieme agli altri giornatari; da qui un procedimento per stregoneria e un insolito finale in quel tempo di roghi e inquisizioni. Elvira trovò bellissima questa storia: dovevo scriverla, mi disse, portargliela. 
Ci tentai, ma ogni scrittura mi sembrava inadeguata. Mi convinsi che la prosa non era per me: lasciai perdere. Nel frattempo mi ero trasferita a Caltagirone e il nostro rapporto si era allentato. Dopo anni però un comune amico, che era andato a trovarla, mi disse che lei gli aveva chiesto di me e di quella bellissima storia, che ancora aspettava.
 Commossa e stranizzata: dopo tanto tempo Elvira ricordava la storia di Francisca, l’homo-fimmina, e ne aspettava la scrittura! 
Le telefonai, ripresi quei vecchi fogli: dopo sei mesi le mandai il manoscritto.
Questa era Elvira: un grande amore per la vita, che solo facendosi racconto, si sottrae all’oblio, al provvisorio,  nella scrittura trovando condivisione e memorabilità.  
Una passione, per fortuna ereditata dai suoi figli, Olivia e Antonio, che continuano a cercare storie, a farne libri. Duraturi libri. In questo presente, senza memoria e senza qualità.

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