"Montmartre è apatica, pigra, indifferente, con un'aria trasandata e consunta".
Henry Miller in "Giorni tranquilli a Clichy", edito da Adelphi e tradotto da Katia Bagnoli, rivive l'esilio volontario a Parigi, quel bisogno frenetico di assaporare la vita.
Il suo alter ego, Joey, ci trascina in una città che esprime la vertigine della scoperta, della vitalità.
Nei caffè, nelle strade, nelle stanze del piacere è impressa la magia dell'incontro, della carnalità voluttuosa.
Lo scrittore non reprime la sua sensualità, la rielabora in immagini crude, infrangendo ogni tabù.
Ci mostra l'essenza del desiderio, fiamma che arde e che nella congiunzione dei corpi raggiunge l'apice della conoscenza.
Insieme a Carl, amico e complice, esplora "quel livello pericoloso dove, per felicità e meraviglia assolute, uno ritorna allo stato originario".
Ripartire dalla purezza di un istinto che è creazione e innovazione.
Provare a "lasciarsi trasportare dalla corrente", cedere alla tentazione di mostrare tutto il perimetro della voracità affettiva.
Le tante donne che fanno da cornice al testo racchiudono il mistero di una femminilità senza veli.
Ogni storia è vita vissuta tra le macerie di amori furtivi che non si celano dietro falsi pudori.
Il grande pregio dello scrittore è quello di restituirci l'interezza dei personaggi, le lacrime, la spudorata ebbrezza d'amore, la passione che ferma il tempo.
Vengono in mente le parole di Anais Nin in "Henry e June": "Vivo per impulso, per emozione, per incandescenza". È questo il senso del romanzo.
Ad arricchire il testo le foto di Brassaï capaci di smontare il mito di una metropoli accecata dai colori.
Locali notturni, coppie di amanti, frammenti di palazzi nell'opacità di un grigio pieno di ombre sono il perfetto scenario voluto da Miller.
Bagliori che lasciano immaginare "un'enorme gemma scheggiata", dove la scrittura è libera espressione dell'Io in tutte le sue cangianti sfumature.
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