La letteratura può fare miracoli. È quello che succede leggendo "La ragazza con la Leica", premio Strega 2018, edito da Guanda.
Si sarebbe persa la memoria di Gerda Taro, prima reporter di guerra, figura di spicco nella emancipazione della fotografia.
Lo scatto diventa racconto, voce di tragedie immani, scarnificazione del senso tremendo, violento, inenarrabile della guerra.
Helena Janeczek impiega anni di ricerca, visita i luoghi, studia i personaggi che ruotano intorno alla sua protagonista.
E finalmente scrive. Lo stile è asciutto, giornalistico. Lascia fuori ogni interpretazione mitica, restituendo al lettore solo la verità.
Lo fa attraverso tre figure che diventano nuclei della narrazione, coinvolti e appassionati cantastorie.
Tracciano segni, evocano episodi, in un continuo rimando spazio temporale che trasforma il romanzo in un'epopea.
È il bisogno di cambiamento, quella libertà interiore che permette di "vivere a tutti i costi, ma non a ogni prezzo, che rende Gerda una rivoluzionaria.
Saper distinguere il pubblico dal privato, essere "regale e volitiva nell'elargire ogni parte intatta di se stessa": un esempio per tutte noi, disorientate da un tempo che calpesta i diritti, che annulla le battaglie di nonne, madri, sorelle, compagne.
La scrittrice non gioca sulla carta vincente dell'amore travolgente con Robert Capa, preferisce percorrere altre strade, a volte celate tra le pagine. Sfata l'illusione dell'eroe solitario, insiste sul cambiamento profondo causato dalle bombe, invita a cercare itinerari che "corrono in parallelo" senza limitare il viaggio.
Insegna che "per ritrovare qualsiasi cosa bisogna attingere alla memoria, che è una forma di immaginazione."
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