"Dipendenza" Tove Ditlevsen Fazi Editore
"Per me la vita è godibile solo quando scrivo."
Il dolore cresce come un'onda anomala, si espande, tracima, invade ogni spazio.
Si insinua tra le parole, nella quotidianità, nei giorni lenti, nel goffo tentativo di amare.
Nell'attesa di qualcosa di speciale che spazzi il marciume di relazioni inconsistenti.
Nello sforzo di aggrapparsi a volti e corpi, nelle ore vuote di sogni.
"Dipendenza", pubblicato da Fazi Editore grazie alla traduzione di Alessandro Storti, conclude una trilogia.
Rispetto alle altre due prove letterarie è incandescente, feroce.
È l'ultimo atto di una sceneggiatura che non può più celare le ombre.
La scrittura è scostante, aspra, va a singhiozzo come un lamento a lungo trattenuto.
Piccoli eventi che si sfrangiano in un'insoddisfazione crescente.
È come se si assistesse allo sdoppiamento della protagonista che non è più attrice principale.
È colei che si osserva vivere con freddezza, con rassegnazione.
L'unico spazio di tregua è quello della scrittura ma anche questa oasi è ossessionata dal giudizio altrui.
Non c'è libertà, non c'è pace.
Il ritmo non è costante, ha totalità più accese, accenti stridenti accompagnati da un costante senso di inadeguatezza.
E quel dipendere da che già avevamo intuito qui si acuisce, diventa palese.
Raccontare la propria fragilità senza filtri è un atto di coraggio e siamo grati a Tove Ditlevsen che nello svelarsi ci dona il canto incompiuto di una donna travolta da se stessa.
Un romanzo che spacca il cuore per la lucida analisi di una personalità frantumata.
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